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A cura di ANDREA CURTI

martedì 26 luglio 2016

CULTURA - Dal 5 novembre sino al 19 febbraio 2017, una interessante Mostra a Treviso: "La geografia serve a fare la guerra?" Intanto rimettiamola a scuola...

La geografia serve a fare la guerra? È l’interrogativo che si pone la mostra della Fondazione Benetton Studi Ricerche, a cura di Massimo Rossi, in calendario negli spazi Bomben di Treviso da domenica 6 novembre 2016 a domenica 19 febbraio 2017, con inaugurazione sabato 5 novembre alle ore 18. L’esposizione si avvale della partnership di Fabrica, che ha curato l’allestimento e il progetto grafico, e della collaborazione e del patrocinio della Regione del Veneto-Assessorato alla cultura. Mappe, atlanti e opere d’arte racconteranno, attraverso tre percorsi strettamente legati e continuamente in dialogo, la grande forza comunicativa e persuasiva delle carte geografiche, oggi non compresa in Italia tanto da essere ai margini della didattica scolastica tra problemi di riduzione (quasi scomparsa…) della materia nelle ore di insegnamento e problemi di atipicità della classe di concorso A021, l’unica proprio di geografia, con docenti formati e specializzati in geografia che, malgrado una direttiva ministeriale specifica a favore, si vedono spesso scavalcati da altri docenti di altre classi di concorso, il più delle volte per il parere del dirigente scolastico.
Le mappe, malgrado pareri opposti, restano comunque un potente mezzo di comunicazione non verbale e il contesto delle celebrazioni della Grande Guerra offre un valido pretesto per indagare sulla loro capacità di influenzare l’opinione pubblica quando assecondano il punto di vista degli Stati Maggiori. Per questo il percorso espositivo si concentra sul periodo storico che va dalla fine dell’Ottocento agli inizi del Novecento, ma parte dall'antichità e arriva ai giorni nostri per raccontare anche un’altra geografia possibile, non per forza asservita alle logiche militari. 
La mostra si aprirà con la sezione “Rocce e Acque, in cui si vedrà come con un semplice e perentorio segno tangibile, il confine naturale, le mappe indurranno monti e fiumi a diventare strumenti capaci di separare e dare forma fisica a gruppi etnici, linguistici, nazioni per trasformarli da espressione geografica a stati.  La seconda sezione, “Segni umani, si occuperà di raccontare l’uso del sapere geografico a fini propagandistici per trasmettere con forza l’idea di nazione ancora prima della sua ufficiale proclamazione politica. La terza parte, “Carte da guerra, porrà l’accento sulla coesistenza di due approcci culturali apparentemente inconciliabili, nel contesto della Prima guerra mondiale: simboli grafici per significare la smisurata industria bellica disseminata sul fronte del Piave, insieme a segni che testimoniano la presenza di migliaia di colombi viaggiatori che volando imprendibili ad alta quota e percorrendo grandi distanze in breve tempo, informano e trasmettono ordini. Mortai da 305 mm che esplodono proiettili di 400 kg alti come un uomo, e palloni frenati sospesi a centinaia di metri dal suolo «che in lunga fila si dondolano nell’azzurro lungo il corso del Piave» come racconterà lo scrittore-tenente Fritz Weber, nemico sulla riva opposta. 
In mostra si apprezzeranno (speriamo) la capacità delle carte di mettere ordine a un mondo altrimenti caotico, per renderlo più comprensibile e familiare, distinguendo gli oggetti, ma soprattutto nominando i luoghi per consentirci di riconoscerli, uno a uno. In tutte le epoche le mappe, prodotti sociali e umani per eccellenza, hanno raccontato i luoghi anche attraverso i toponimi esercitando su di essi un potere a volte aggressivo. Specialmente quando hanno alterato la grafia originaria di nomi secolari o addirittura quando questi ultimi sono stati sostituiti da altri di nuovo conio per farli corrispondere ai più recenti dominatori: l’olandese Niew Amsterdam diventa l’inglese New York; la tedesca Karfreit muta nell'italiana Caporetto per divenire la slovena Kobarid; l’asburgica Sterzing diventa la romanizzata Vipiteno. O ancora per rispondere a impellenti urgenze sociali e dar voce a speranze territoriali prima inespresse: Alto Adige, Venezia Tridentina, Venezia Giulia o semplicemente, nel caso di un fiume, cambiandone il genere.  La secolare Piave degli zattieri cambia sesso nel 1918 per offrire maggiore resistenza virile all'invasione austriaca e diventa il Piave per rassicurare l’immaginario collettivo della giovane nazione italiana.
Ma è proprio vero che "La geografia serve a fare la guerra?" Partendo dal presupposto che a fare la guerra è sempre l’uomo, pronto a sfruttare per i propri fini tutti i saperi disponibili, la geografia serve nella vita di tutti i giorni; si parla di guerra, di Isis, di Siria e Libia...Provate a chiedere ai ragazzi dove si trovano quei paesi, quali sono le etnie dominanti, quali culture stanno investendo il nostro continente e quali li investiranno, Pur vivendo in una società culturale multietnica sarà un silenzio culturale assordante il loro, e non soltanto il loro, dal momento che all'Expo hanno sbagliato l'associazione carta geografica-regione (Stand dei "borghi più belli d'Italia": in quello della Toscana c'era una carta d'Italia in cui era evidenziata l'Emilia Romagna...). Questa mostra parla anche di un’altra geografia possibile, una geografia necessaria per riflettere e agire sul mondo quando proviamo a osservarlo dall'alto sfogliando le pagine dell’atlante rinascimentale di Abramo Ortelio che adotta il medesimo punto di vista di Dio, o contemplando The Blue Marble, la prima fotografia del pianeta terra vista dall'obiettivo degli astronauti dell’Apollo 17. Una geografia che moltiplica le sue potenzialità ogni volta che un artista decide di dialogare con una carta geografica e in mostra saranno esposti tappeti geografici e alcune opere di artisti contemporanei. Ma soprattutto si potrà riflettere su un’altra geografia in grado di insegnarci a conoscere e progettare i luoghi attraverso un ininterrotto dialogo con i processi storici e di persuaderci con l’esempio di due autorevoli testimoni di un secolo fa, il geografo Cesare Battisti e lo storico Gaetano Salvemini, che «non esistono confini politici naturali, perché tutti i confini politici sono artificiali, cioè creati dalla coscienza e dalla volontà dell’uomo».

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